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App, tamponi quotidiani, divieti e restrizioni. Vi racconto gli obblighi dei Giochi di Tokyo 2020.

Per San Marino saranno per sempre i Giochi delle prime, storiche medaglie olimpiche, per il mondo però, purtroppo, saranno per sempre i giochi svolti al tempo della Pandemia.

Sono e saranno per sempre i giochi olimpici delle mascherine obbligatorie, dei controlli quotidiani, del “non parlate se non è necessario”, dei cartelli che vietano di cantare e di abbracciarsi, delle “bolle” che virtualmente chiudono sotto una cupola di vetro atleti, giornalisti e addetti ai lavori. Rigorosamente separati fra loro. Sono e saranno per sempre i Giochi senza pubblico, con le tribune vuote, ghiacciate dall’aria condizionata all’interno, arroventate dal sole all’aperto.

E allora perché disputarli?

Me lo sono chiesto anche io, ovviamente, che però, altrettanto ovviamente non ho trovato una risposta unica ed oggettiva. Questioni di sponsor? Certamente. Questioni di diritti televisivi? Si. Questioni di investimenti del paese ospitante? Si, anche. Pressioni internazionali? Potrebbe essere. Oppure il romanticismo dei Giochi, che da sempre fermano le guerre e uniscono popoli, occasione unica per lanciare un messaggio di ripartenza, di riscatto, di resilienza.

Sono tornato da Tokyo da 48 ore e la prima domanda che tutti mi hanno fatto, fortunatamente, è quella relativa all’emozione vissuta all’Asaka Shooting Range quando i due tiratori sammarinesi ci hanno regalato il più importante risultato sportivo della storia del nostro Paese, ma la seconda, inevitabilmente, è quella sulle restrizioni.

Provo a raccontarvi come ha vissuto un giornalista i primi 10 giorni di Giochi Olimpici a Tokyo.

La grande macchina della prevenzione è partita molti mesi prima della Cerimonia d’Apertura. Ad ogni organizzazione, testata giornalistica, tv o contractor è stato chiesto di nominare un CLO (Covid Liason Officer) che durante l’avvicinamento ai Giochi ha provveduto alla compilazione di centinaia di fogli e documenti e che durante i Giochi si è dovuto preoccupare che tutto procedesse nel rispetto delle regole (nel caso peggiore è anche l’uomo che deve predisporre le quarantene per i contagiati o i contatti stretti). Il mio CLO, che ringrazio di cuore, era Gianfranco Merenda di Italpress. L’ingresso in Giappone è consentito solo con la comprovata negatività a due tamponi molecolari da effettuarsi 96 e 48 ore prima dell’atterraggio e da far certificare su un modulo tradotto in giapponese uguale per tutti. Un terzo test, salivare, viene svolto dalle autorità aeroportuali subito prima della dogana e la cui negatività garantisce l’ultimo OK all’ingresso in Giappone. Tutti gli accreditati devono installare sul proprio smartphone due app realizzate dal Ministero della salute giapponese, la prima, COCOA, serve per il tracciamento dei contatti (molto simile ad Immuni) e intreccia i dati delle connessioni Bluetooth e della geolocalizzazione, l’altra invece OCHA serve per caricare tutti i risultati dei test effettuati prima e durante i Giochi e per la registrazione quotidiana della temperatura e delle condizioni di salute di ogni accreditato (una continua autocertificazione digitale), si interfaccia con un portale predisposto dall’organizzazione dove vengono caricate le negatività ai test (che si chiama ICON) e genera un codice QR che garantisce accessi e spostamenti. Devo ammettere che molti altri documenti che ho dovuto preparare subito dopo lo sbarco non so nemmeno che cosa fossero. La sfida alla pandemia prosegue con tamponi salivari da effettuare quotidianamente per i primi 3 giorni, poi al settimo e al tredicesimo. Dopo 5 negatività dal 14esimo giorno si acquista lo status di “residenti” e la possibilità di cenare nei locali per turisti, utilizzare taxi e mezzi pubblici, visitare la città. Prima dei 14 giorni tutti questo è vietato. I test vengono effettuati attraverso la saliva che deve essere raccolta in provette da etichettare con un codice a barre, il codice a barre viene registrato, insieme a numero di accredito e data di nascita, su un portale dove nel giro di 24 ore vengono certificati e pubblicati i risultati. Nel triste caso di positività il soggetto viene accompagnato in un Covid-hotel dove dovrà rimanere isolato da tutti per un minimo di 14 giorni fino alla doppia negatività a due test molecolari, ecco perché l’organizzazione richiede anche un’assicurazione che preveda il sostegno ai costi extra per prolungamento della trasferta in caso di malattia, positività o quarantena. Il vaccino non viene considerato in nessun modo. Non serve e non viene richiesto se non per gli imbarchi sui voli di andata o ritorno. La mascherina è sempre e comunque obbligatoria anche all’aperto, i mezzi di trasporto sono esclusivi per gli accreditati e il contatto con autisti o volontari è minimo. Ogni tavolo, sia esso per la cena o per appoggiare il computer e lavorare, è diviso dalle strutture in plexiglass che siamo ormai abituati a vedere anche nei nostri negozi. Alcol igienizzante e segnaletica in ogni dove, raccomandazioni di ogni tipo, a volte anche curiose, e massima limitazione ad ogni assembramento, sia per interviste, festeggiamenti o semplici saluti. A tutto questo “bendiddio” si aggiungono i controlli di sicurezza, i metal detector e qualche perquisizione dei militari mandati a presidiare varchi e accessi.

Ogni giorno. Ogni santissimo giorno.

La terza domanda non ho concesso a nessuno di farmela perché so che tutti, a questo punto, mi avrebbero chiesto se allora “il gioco vale la candela”.

Per la sicurezza mia e delle altre persone, ma soprattutto per essere ai Giochi Olimpici sono e sarò sempre disposto ad ogni sforzo, ad ogni controllo, ad ogni sacrificio.

Perché come disse il barone De Coubertain citando un’omelia dell’Arcivescovo di Betlehem: “The important thing in the Olympic Games is not so much the winning but taking part”.

Che, badate bene, non è la giustificazione della sconfitta che oggi siamo abituati a citare, è l’esaltazione dell’assoluto valore dell’essere presenti all’evento stesso.

La storia si scrive a capitoli ma noi, che troppo spesso siamo abituati a rifugiarci nel “beh, siamo piccoli” credevamo che ce ne fosse uno unico e ci eravamo già accontentati quando giovedì l’aveva firmato Alessandra Perilli. Chi sapeva che di pagine bianche da scrivere ce n’erano altre invece è proprio lei, lei che dietro la mascherina d’ordinanza se la ride da due giorni e senza ammetterlo mai era lì pronta a dimostrarci ancora tutto il suo valore. Come se ce ne fosse bisogno. E forse lo sapeva anche Gian Marco ma a lui, prima volta ai Giochi, suona tutto un po’ più difficile e quando le cose stanno così puoi solo chiuderti nelle tue cuffie e sparare come sai fare. E si vedrà.

All’Asaka Shooting Range il cielo è biancazzurro dalle prime ore del mattino e non è una metafora perché su uno sfondo apparentemente limpido ci sono anche parecchie nuvole. Quando la nostra coppia di cecchini sale in pedana molti big hanno già sparato e ad andare veramente bene sono in pochi. La prima serie è stratosferica, percorso netto per entrambi i tiratori, 50/50 da paura. La seconda serie è solo un pochino meno buona ma il 49/50 che fa 99/100, vale un provvisorio secondo posto. La terza serie è una escalation di emozioni, gli avversari sbagliano, i conti matematici sotto pressione vengono male anche al Presidente Giardi che pure ha lavorato in banca per anni, “siamo dentro? Quanto manca?” a due piattelli dalla fine saranno sorrisi e abbracci anticipati: Berti e Perilli sono in finale per l’oro. Che mal che vada sarà argento. Dall’altra parte la Spagna, con Fatima Galvez e Alberto Fernandez. Vecchie conoscenze, come una vecchia conoscenza è quel Marcello Dradi che li allena.

14.05, mentre sul Titano si formano i primi capannetti di tifosi pronti a far colazione con il moscato, i due “mostri” si appoggiano al calcio del loro fucile e iniziano a sparare per la gloria. Gli spagnoli partono malissimo, dopo 20 piattelli siamo sopra noi, dopo 40 guidano loro di una lunghezza.

Gli ultimi 10 colpi sono da infarto, Alessandra viaggia spedita come un razzo e lo stesso fa Fernandez, Gian Marco infila un errore di troppo ma quando tutto sembra perduto la Galvez gli concede l’errore che può valere il pari e lo shoot off. Luca Di Mari dalla sedia dei tecnici si gioca il tutto per tutto, chiama un time out, riorganizza le idee ai suoi. Purtroppo non basterà perché l’errore di Berti farà esultare gli iberici. Poco male, mai una sconfitta era così bella.

Ed è festa. Ancora una volta.